Dal 5 settembre al 5 dicembre 2010, il Museo Ebraico di Bologna, in via Valdonica 1/5, ospita la mostra fotografica il Viaggio di Elia. Immagini dal mondo ebraico di Monika Bulaj. Un viaggio nei labirinti dell’arcipelago ebraico dalla Mitteleuropa alle terre del Medio Oriente, costruito in anni di lavoro da Monika Bulaj, sulle tracce del più ramingo dei profeti.
Un diario fotografico – fatto di grandi stampe e di un documento audiovisivo – che parte dal cuore del mondo Yiddish e arriva fino in Iran, attraverso Costantinopoli, l’Anatolia, il Caucaso, Israele e l’Egitto. Vi scopri passione e rigore, danza estatica ed esplorazione instancabile della Parola, ombre e fuochi incendiari, resti di «tribù» dimenticate sulle montagne, presenze inattese e vuoti terribili.
Ne trai la sorpresa e l’incanto di fronte alle gemme del più antico e nobile dei popoli del Libro, così come è leggibile, oggi, dall’Europa al Vicino Oriente.
Monika Bulaj nata a Varsavia nel ’66, fotografa, scrittrice, documentarista. Pubblica reportage sui confini delle fedi, popoli nomadi e diseredati. Collabora con diverse testate italiane ed estere (La Repubblica, Gazeta Wyborcza, GEO, National Geographic, Io Donna-Corriere della Sera, Courrier International).
Ha esposto – dalla Germania all’Egitto – circa 50 mostre personali. Tra i suoi libri, Libya felix (2003), Rebecca e la pioggia (2006), Gerusalemme perduta con Paolo Rumiz (2005), Figli di Noè (2006), Genti di Dio, viaggio nell’Altra Europa (2008).
Premi e riconoscimenti: Francesco Gelmi de Caporiacco Award 2008; Bruce Chatwin Award 2009 “Occhio Assoluto”; The Aftermath Project Grant/Open Society Institute for 2010.
Per la mostra Il viaggio dei Elia, Monika Bulaj ha ottenuto nel 2005 il Grant in visual arts, dalla European Association for Jewish Cult.
Il Viaggio di Elia
presentazione di Franco Bonilauri, direttore MEB
“Per me testimoniare è sempre partecipare. Sentire dolori, vibrazioni, slanci, suppliche. Vedere la luce cui aspirano gli uomini e avvertire la loro paura. Provare stupore o orrore, sempre senza giudicare. Viaggiare in solitudine, trovarsi con tutto questo addosso da soli. Negli occhi delle persone che incontri devi trovare te stesso. Diverso, ma accettato. Sento un sottile ma forte diaframma che mi protegge. Non so definirlo. Ci devi essere, perché l’esperienza talvolta è troppo forte. Spesso ricevo le proposte di conversione, per il bene della mia anima che, a sentir i miei interlocutori, già si trova sulla strada giusta. Parlo degli ebrei, sì persino gli ebrei che normalmente non fanno proselitismo, e poi dei cristiani ortodossi e dell’Islam. «Sei una di noi», dicono i musulmani: «Hai la nostra anima» dicono gli ebrei, usando, in più una parola ebraica che significa l’incessante viaggio delle anime, di un corpo nell’altro. «Gilgul«, una bella parola. Nonostante questo, non ho mai avuto problemi di identità. Talvolta il rischio è acustico. I tamburi e i pifferi nei riti di possessione, nelle danze rituali. Talvolta il ritmo è più forte della volontà. Ti segue, ti manipola, ti tradisce. Viaggiando, vedendo talvolta cose straordinarie, non ho mai provato nessun desiderio di conversione e nemmeno di appartenenza, anche se, così a naso, le preghiere dei chassidim e quelle dei sufi, ma anche quelle degli etiopi e dei siriaci, le trovo efficaci. Anche l’approccio buddista non mi dispiace. Ma sai quanto è bello il Padre Nostro in greco? E nelle Beatitudini sulla montagna trovo già tutto».
Così rispondeva Monika Bulaj in una intervista alcuni anni fa a chi le chiedeva se a livello personale si sentisse vicina a una qualche forma di spiritualità. In queste parole vi è la sintesi del suo lavoro, che da molti anni coltiva viaggiando alla ricerca di quella «spiritualità del sacro» che continua ad essere presente tra alcune minoranze che hanno mantenuto tradizioni e costumi che si tramandano di generazione in generazione. La Bulaj proviene da studi di filologia classica che si sono allargati all’antropologia del sacro, alla storia, all’antropologia di teatro come è stata quella di matrice grotwskiana, che esplorava i confini tra il rituale e la rappresentazione, alla filosofia cattolica e biblistica a cominciare dal Pentateuco. Una continua ricerca che l’ha portata alla scoperta di «microcosmi di fede» attraverso l’obiettivo fotografico. Col tempo ha saputo perfezionare il suo lavoro dimostrando una sensibilità e una attenzione che ancora non si era vista in fotografia. Non un reportage giornalistico sui costumi e le tradizioni, come spesso accadeva in passato, ma un’ attenta ricerca che le viene da una passione interiore verso la spiritualità che le consente, con estrema disponibilità, di inserirsi pienamente all’interno dei gruppi che sta indagando. In questo senso mi viene in mente il lavoro di uno dei più grandi fotografi spagnoli, Jose Ortiz-Echague, che negli anni Trenta pubblicò un volume sulla “España Mistica” dopo anni di intensa ricerca in tutto il Paese. Una pietra miliare, ancora oggi, per chi si occupa di antropologia del sacro in Spagna e non solo.
Uno dei primi temi trattati dalla Bulaj è quello ebraico: «E’ stata una mia necessità di riscoperta. Appartengo a una generazione che non ha avuto nessun stretto contatto con il mondo ebraico. E’ un tema su cui in Polonia dopo la seconda guerra mondiale è sceso un profondo silenzio accompagnato dalla sensazione di un vuoto immenso. Per noi l’ebraismo era un tabù e al tempo stesso un’attrazione molto forte perché l’ebraismo è alla base della cultura polacca, delle nostre leggende, della musica, della storia, della letteratura. Il quartiere Mea Seharim a Gerusalemme, ad esempio, è un colpo al cuore per tanti di noi. Lì rivediamo le case dei nostri villaggi, la stessa ristrettezza dei vicoli e le decine e decine di spazi destinati allo studio e alla preghiera». La mostra, che dopo Trieste e Otranto viene ospitata al Museo Ebraico di Bologna, presenta una selezione di straordinarie immagini di quel che è rimasto, in Polonia, in Bielorussia, in Lituania, Ucraina, Bucovina, Serbia e Turchia, in Anatolia, in Israele e in Iran, di un mondo ebraico scomparso quasi completamente prima con i pogrom zaristi, poi con la Shoah. Un mondo ebraico, tuttavia, che per secoli ha rappresentato il cuore pulsante di una Europa Orientale e che poi ha saputo rinascere in forme diverse nel secolo scorso prima negli Stati Uniti d’America, poi dal 1948 in Israele, contribuendo in modo determinante alla crescita civile, sociale economica e intellettuale di quei Paesi. La mostra con le sue emblematiche immagini rimanda a un piccologrande mondo, che continua a vivere nei suoi valori e nella sua integrità spirituale e di cui, grazie alla sensibilità di Monika Bulaj, ne possiamo intuire se non anche percepire l’ «anima» profonda della sua cultura e della sua storia.
NdR: A pedido de la autora, las fotos que ilustraban este artículo fueron publicadas temporalmente y ya han sido eliminadas el 6/12/2010
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Monika
Gracie, dei popoli del libro.
Kol ha kavod.
Dr Laercio Salatiel
Medico Rio de Janeiro Brasil.
Dei popoli dei libro dei Brasile.