In fuga dall'Inquisizione

La casa editrice Giuntina, grande strumento della cultura ebraica italiana, ha appena pubblicato un libro di Elia Boccara, intitolato «In fuga dall’Inquisizione. Ebrei portoghesi a Tunisi: due famiglie, quattro secoli di storia» (pp.408, € 22): è la storia di due famiglie ebraiche che sono vissute fra Tunisi e Livorno, da cui l’autore proviene. Come accade spesso quando queste microstorie sono frutto di ricerche e testimonianze d’archivio oltre che di documenti di famiglia, il libro di Boccara offre una lettura particolarmente affascinante, presentandoci le grandi vicende della storia ebraica, dalla Cacciata di Spagna all’emancipazione alla Shoah, rifratte nelle peripezie di persone concrete, messe di fronte ai dilemmi esistenziali e alle opportunità, ai rischi e alle pressioni che ne derivano. Vi sono nel testo personaggi affascinanti, anche se lontani dalla grande storia, a partire da Dona Isabel Henriquez Bocarra, imputata di giudeizzare dall’Inquisizione di Toledo nel 1670, fino a Gabriel e Raymond Valensi, uomini d’affari, fiduciari del consolato di Francia a Tunisi e capi de facto della comunità ebraica in quella città, e tanti altri, di cui possiamo osservare le strategie di vita e la collocazione sociale, grazie alle ricerche d’archivio riassunte nel libro.

Da lettore appassionato di storia, senza alcuna pretesa di essere un esperto, sono stato catturato dalla vicenda in fondo semplice ma piena di complicazioni delle generazioni di due famiglie che si sforzano di restare a galla fra le grandi tempeste della modernità ebraica. Sono i discendenti di anusim spagnoli, ebrei che hanno mantenuto clandestinamente la loro identità nella penisola iberica per due secoli dopo la conversione forzata, che alla fine del Seicento riescono a emigrare in Italia, fermandosi a Livorno, ma poi trovano conveniente impegnarsi nella comunità «portoghese» di Tunisi, mantenendo la cittadinanza toscana prima e italiana poi. Sempre in movimento sul mare fra Venezia, Pisa, Tunisi Livorno.

Leggere questo libro, oltre a emozionarmi e a interessarmi molto, mi ha dato da pensare, suggerendo diverse riflessioni, che mi permetto di esporre qui. La prima è questa. La passione per il passato, per le storie familiari, le genealogie, le parentele è probabilmente più diffusa nel mondo ebraico che in qualunque altro ambiente, a parte forse una certa nobiltà. La ricerca di Boccara è di alto livello, ma quale nostra famiglia non ha qualcuno che coltivi la passione di conoscere le vicende di bisnonni e trisavoli, che non dica con fierezza: noi veniamo da qui, ci è accaduto questo, il nostro nome era quest’altro, abbiamo subito queste persecuzioni, siamo scappati di qui. E’ un fatto significativo, che rimanda sì alla dispersione volontaria o obbligata di tanta parte del nostro popolo, ma soprattutto alla volontà di riallacciarsi alla nostra origine e di conservarla. Al debito che tutti abbiamo coi nostri antenati che soffrirono e lottarono per mantenere il loro ebraismo quando tutto intorno cercava di abolirlo. La memoria che Boccara ricostruisce dei suoi antenati è in fondo la risposta adeguata al loro ricordo segreto dell’ebraismo, conservato per generazioni in mezzo a rischi terribili e a una cultura che li demonizzava. Non è del resto una novità. Troviamo questa stessa passione nelle genealogie della Torah e nel richiamo all’anteriorità che percorre tutto il testo: annunciandosi a Moshè dopo due secoli di «eclisse» anche il Santo Benedetto si definisce come la divinità «dei tuoi padri».

Una seconda riflessione riguarda la pluralità ebraica. Nel libro di Boccara si vede come essa sia stata grandissima e strenuamente difesa, mentre oggi essa è a rischio, a causa della Shoah, del genocidio culturale che gli Stati arabi hanno fatto dell’ebraismo sefardita, della globalizzazione, di un certo centralismo cultuale del rabbinato israeliano. La comunità ebraica «portoghese», cioè italiana, di Tunisi, racconta Boccara, convive ma non si confonde per secoli con quella arabofona di Tunisi, come non si confondono «levantini» e «ponentini» a Venezia – eppure secondo i nostri criteri attuali sono tutti sefarditi. Sullo sfondo c’è la tradizione askenazita, anch’essa nelle sue varie forme, quella italiana (ma ben diversa a Roma, in Piemonte o a Venezia): tutte vissute come diverse. A Tunisi gli ebrei «portoghesi» si dividono nell’Ottocento fra francofili e italofoni, e ci sono diversi gradi di interesse per la dimensione religiosa e di osservanza, che si indovinano nelle vicende ricostruite dal libro. Insomma non si trova affatto in questa storia un ebraismo antico chiuso e completamente autosufficiente, magari ingenuo ma integro, come in certe immagini oleografiche del nostro passato. Gli ebraismi sono tanti, e nessuno cerca di unificarli. Una ricchezza che in parte ci è giunta, per esempio con le diverse edot delle maggiori comunità italiane e con la fantastica ricchezza culturale israeliana, ma di cui forse ci sfugge il valore e che rischia di appiattirsi.

Una terza riflessione. Il rapporto che queste famiglia hanno col loro ambiente, il loro essere immigrati. E’ chiaro che esse sono molto segnate dalla loro appartenenza, che per esempio a Tunisi come in Bulgaria o a Venezia, ci si ricorda dell’ingrata patria iberica dopo secoli. C’è oggi una tendenza da parti del mondo ebraico a identificare la diaspora ebraica nei secoli con l’immigrazione islamica attuale, per reclamare politiche di accoglienza nei confronti di quest’ultima. Senza entrare nel merito di ciò, il libro di Boccara aiuta a capire le differenze profonde fra questi due fenomeni. Anche prima dell’emancipazione, ininterrottamente per tutta l’antichità e il medioevo fino all’età moderna, il mondo ebraico ha sempre cercato e spesso trovato un equilibrio delicato fra la conservazione delle propria identità e l’integrazione nelle società in cui si muoveva; ha pregato per i governi degli Stati in cui si trovava, ha adottato lingue e costumi.

Attaccati al proprio ebraismo fino al punto di conservarlo in segreto per secoli, gli ebrei raccontati da Boccara, come tanti altri, sono però anche a loro agio con le culture in cui si muovono. Per secoli a Tunisi fanno da mediatori fra pirati barbareschi e cittadini europei, in particolare italiani, per la liberazione dei prigionieri; sono commercianti che basano la propria fortuna sul credito, dunque sulla credibilità; non pretendono affatto di imporre i propri costumi o di conquistare nulla, si adattano, parlano le lingue europee e ne indossano gli abiti, insomma sono molto più multiculturali loro del loro ambiente, si affermano per la loro capacità di integrazione, che non è certo assimilazione. Sono utili al loro ambiente, spesso indispensabili e assai più colti e produttivi dei loro vicini. Oggi le cose sono molto diverse, è diverso il rapporto fra mondi religiosi e fra culture, diverse le pretese della nuova immigrazione.

Il libro di Boccara ci parla, oltre che dei suoi protagonisti, della nostra comune variabile identità, delle tattiche e delle strategie della secolare sopravvivenza ebraica. E’ un bell’esempio (come certamente ce n’è molti altri) di una complessità sociale e culturale nel nostro passato che gli storici senza dubbio conoscono bene, ma che spesso è occultata dalla ricostruzione popolare e spettacolare romantica di un mitico passato ebraico incontaminato, povero ma felice, che sarebbe stato assimilato dalla modernità. In realtà noi siamo oggi eredi più dell’intraprendenza multiculturale dei «portoghesi» di Tunisi che dell’isolamento degli shtetl polacchi (che probabilmente in realtà presentavano anch’essi fenomeni analoghi): siamo sempre stati mediatori, viaggiatori, interpreti di culture, ci siamo sempre esposti al rischio della modernità e dell’integrazione; ma siamo qui perché abbiamo saputo conservare il nostro cuore ebraico proprio grazie a questo coraggio e a questa apertura.


Ugo Volli

Fuente: UCEI

 

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