20 anni senza Gino Bartali, il grande ciclista «Giusto tra le nazioni»

Il grande campione salvò la vita a centinaia di ebrei durante la guerra.

Venti anni fa si spegneva a Firenze Gino Bartali e lo avremmo ricordato come lui avrebbe voluto, cioè «solo» come uno dei più grandi ciclisti italiani eterno rivale di Coppi, se non avesse confidato al figlio Andrea quanto fatto durante l’occupazione tedesca in Italia. Rischiando la vita, aveva salvato più di 800 ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Per questo è stato nominato ‘Giusto tra le nazioni’, secondo quanto stabilito dallo Yad Vashem il 23 settembre del 2013. «Il bene si fa ma non si dice», aveva spiegato Bartali al figlio chiedendogli di raccontare la sua storia soltanto a tempo debito. Quando i «salvati» iniziarono a farsi avanti, a raccontare di quell’eroe in bicicletta, lui si arrabbiò come racconta la nipote Gioia. Voleva essere conosciuto solo come un campione sportivo.

Nel 2012, il figlio scrisse «Gino Bartali, mio papà». Nella biografia spiegava quello che è poi stato sintetizzato al momento dell’iscrizione all’interno del memoriale ufficiale israeliano delle vittime dell’Olocausto fondato nel 1953, ovvero che «Bartali Gino, cattolico devoto, nel corso dell’occupazione tedesca in Italia ha fatto parte di una rete di salvataggio i cui leader sono stati il rabbino di Firenze Nathan Cassuto e l’arcivescovo della città cardinale Elia Angelo Dalla Costa». Era stato scelto perché poteva correre veloce e passare inosservato e consegnare documenti con nuove identità agli ebrei nascosti dai diversi preti della provincia toscana.

Chi avrebbe mai controllato un ciclista che si allenava? Nessuno, se quel ciclista era un grande campione. Bartali accettò. Non aveva mai nascosto le sue antipatie verso il fascismo. Dopo la vittoria del Tour del 1938 invece di ringraziare il duce, che lo voleva a suo fianco come simbolo di «italico valore», preferì ringraziare la Madonna molto più vicina al suo credo rispetto al dittatore. Fu anche arrestato e fermato più di una volta tra il settembre del 1943 e l’agosto del ’44. Nessuno però si sognava di toccare la sua bicicletta che aveva nascosti nella canna e sotto il sellino timbri e documenti falsi per permettere ad alcuni ebrei di scappare.

«Io salvo le persone, se sono ebree o musulmane o di altre religioni a me non importa niente. A me interessa la vita».

Questo era il suo modo di combattere la guerra: Macinava chilometri di corsa tra l’Umbria e la Toscana per mettere in comunicazione il rabbino Nathan Cassutto con l’arcivescovo toscano e gli ebrei nascosti. Trasportava lettere, timbri, francobolli e documenti sotto il naso degli oppressori. Una volta fu colpito da un proiettile, sparato da un soldato che lo aveva fermato per un autografo e che lui aveva eluso partendo in volata. Un’altra volta finì «in una vasca di acque nere» e, come racconta il figlio, quando tornò a casa, la moglie «lo fece spogliare fuori la porta, lo prese per un orecchio e lo infilò in vasca». Nessuno sapeva di lui, neanche la famiglia. Dopo la morte del rabbino Cassuto si nascose a Città di Castello fino a che il CLN e gli alleati non liberarono l’Italia.

Il campione nascose nella sua cantina una famiglia di ebrei. Questa storia venne raccontata direttamente da Giorgio Goldenberg, ebreo fiumano, che negli ultimi mesi dell’occupazione trovò rifugio grazie a lui: «Dormivano in quattro in un letto matrimoniale: io, il babbo, la mamma e mia sorella Tea. Non so dove i miei genitori trovassero il cibo. Ricordo solo che il babbo non usciva mai da quella cantina mentre mia madre usciva con due secchi a prendere acqua da qualche pozzo». Con Bartali c’era anche il cugino Armandino Sizzi, anche lui particolarmente attivo in quel periodo, e dopo aver raccontato la storia Goldenberg concluse: «Gino e Armandino sono due eroi della Resistenza a cui devo la vita».

Nato il 18 luglio 1914 a Ponte a Ema (Fi) Bartali cominciò a correre a 17 anni e fino al 1940 fu il protagonista indiscusso del ciclismo italiano e non solo. Poi arrivò un ragazzo di Alessandria come suo gregario, si chiamava Fausto Coppi e iniziò una nuova vita sportiva, per entrambi. La storia della loro rivalità, nel secondo dopoguerra, fu uno degli argomenti più dibattuti d’Italia, contribuendo a rendere il ciclismo uno sport di massa. Fino al 1954, anno di ritiro di Bartali, i due si diedero battaglia dominando la scena, vincendo otto Giri d’Italia (rispettivamente 5 Coppi e 3 Bartali), conquistando 39 tappe (22 Coppi, 17 Bartali), 4 Tour de France (due a testa), sette Milano-Sanremo (4 Bartali, 3 Coppi), più numerose altre competizioni per un totale di 124 vittorie di Ginettaccio Bartali e 122 dell’Airone Coppi.

Gino Bartali, il campione e l’eroe

Storica la fotografia durante la tappa del 4 luglio 1952 al Tour de France, tra Losanna e Alpe d’ Huez. I due sono vicini, una borraccia passa di mano. Entrambi dichiararono di essere stati i benefattori. Alla fine con la maglia gialla a Parigi ci arrivò Coppi, ma Bartali fino alla fine dei suoi giorni continuò a dire che era stato lui a dissetare il rivale, aggiungendo che «altrimenti non sarebbe arrivato al traguardo». Era fatto così, burbero, schietto e con un gran cuore, col «naso triste come una salita» e «quegli occhi allegri da italiano in gita’, come recitano i versi di Paolo Conte nella canzone a lui dedicata.

04 MAGGIO 2020 – Rai News

 

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